Leggende Mitologiche

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Abeja G.
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Leggende Mitologiche

Messaggio da Abeja G. » gio dic 06, 2018 9:42 am

La leggenda del primo Icaro:

"Wayra come ogni mattina era solito svegliare i tunquis, i pilcos, ed i colibrì all'interno della giungla, godendosi poi i loro voli, canzoni, e giochi. Wayra, o il vento, era una divinità sempre irrequieta e giocosa. Uno dei suoi compiti quotidiani era quello di accompagnare Mayu, suo fratello maggiore, la divinità dei fiumi della foresta. La loro alleanza era necessaria per irrigare e rinfrescare il bosco affinché la madre suprema mantenesse la sua presenza divina nell'ordine ciclico del cosmo.

Wayra aveva aiutato gli uccelli a modulare i loro canti e dargli una melodia ed un tono particolare. Un giorno volle fare qualcosa di simile con gli esseri umani, scegliendo un onesto lavoratore; immediatamente pensò ad un agricoltore che passava ogni mattina lungo le rive del Mayu, vide che questo era un grande uomo di famiglia e di campo, che ogni mattina accudiva i suoi animali e lavorava la sua terra, vide anche che rincasava molto tardi, anche quando la luce di tata inti si nascondeva con il tramonto all'orizzonte. Il suo nome era Tananta.

Decise così di dargli il fischiettio per accompagnarlo nel viaggio attraverso la giungla. Tananta camminava allegro e ritmicamente al suono del suo fischio, sentendolo quasi simile al canto degli uccelli.

Un giorno Mayu sentì Taranta cantare appunto come un uccello, e subito pensò che l'unico che poteva aver dato questa facoltà all'umano non era altro che suo fratello minore Wayra, che appena lo vide gli chiese cosa fosse mai successo:
-ho sentito Taranta fischiettare, e per un attimo ho creduto che fosse un uccello...-
-gli ho concesso il potere di fischiare perché volevo illuminare i suoi passi, perché è un uomo leale e laborioso- gli rispose Wayra, aggiungendo poi -non ti ho consultato per non crearti disagi...-

Mayu non solo era d'accordo con questa offerta, anzi propose di regalargli il potere della sensibilità dell'acqua, della forza, e del sentimento dell'energia purificatrice. Così decisero di donare a Tananta il potere di Icarar, cioè di cantare. Successivamente, l'indigeno avrebbe camminato lungo le rive del Mayu cantando e fischiettando ai quattro venti, per onorare e rispettare le divinità della foresta. Come ogni altro dono divino, questo permetteva di prendere contatto e creare una nuova alleanza con queste divinità.

I suoi primi icaros erano ben accolti dalle altre divinità e dagli spiriti della foresta, alcuni dei quali avevano segnalato l'evento alla madre suprema Pachamama. La dea maggiore incaricò di chiamare i suoi figli chiedendo poi loro spiegazioni sull'accaduto.
-Tananta è un umano sensibile e rispettoso della foresta e merita un icaro per comunicare attraverso i canti con gli spiriti della giungla-, quindi aggiunsero, -se non ti abbiamo informato è stato per non incomodarti, Madre Suprema.- le dissero Wayra e Mayu
Pachamama replicò:
-avete fatto bene figli miei, d'ora in poi questo sarà un nuovo patto tra gli umani e le divinità. Ogni volta che gli umani canteranno, le divinità della foresta ascolteranno attentamente.-

Da quel momento in poi, non solo fischiava e cantava molto allegramente per questa alleanza, i suoi canti nascevano dal cuore, che è il suo sangue, permettendogli di parlare con la natura, calmare le acque, calmare il vento, invocare gli spiriti e curare gli infermi con la suprema energia purificatrice.
Gli icaros saranno così i canti di una nuova alleanza delle divinità con gli umani, una nuova pachachaka[*] con la Pachamama."


http://archive.is/AzPET


[*]: il ponte cosmico di energia e di Luce


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Abeja G.
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Re: Leggende Mitologiche

Messaggio da Abeja G. » gio dic 06, 2018 9:06 pm

Apre la via a tutti i suonatori, siano essi flautisti o citaredi, più o meno orfici, che lo seguiranno – a tutti i cacciatori che, affamati di alce, si ritroveranno nel mezzo del cammin, tra la vita che fu e quella nessun’altra vita che sarà … ché alla Vita ogni dritta via sarà stata da loro, chissà dove, smarrita ...

Molte generazioni fa, la gente aveva tamburi, sonagli di zucca e cicale, ma non flauti. In quel tempo lontano, un giovanotto uscì a cacciare. La carne era scarsa e la gente nel suo accampamento aveva fame.
Trovò le tracce di un alce e le seguì per molto tempo. L’alce, prudente e svelto, è quello che possiede l’incantesimo d’amore. Se un uomo possiede l’incantesimo dell’alce, la ragazza che gli piace non può fare a meno di giacere con lui. Lui sarà anche un cacciatore fortunato. Il giovanotto invece, di cui narra la leggenda, non aveva l’incantesimo dell’alce.
Dopo molte ore, alla fine avvistò la sua preda. Era abile con arco e frecce, ed aveva un bell’arco nuovo e una faretra piena di frecce dritte, ben piumate e con punte di selce. Tuttavia, l’alce riusciva sempre a stare fuori dal tiro, conducendolo sempre più distante. Il giovanotto era così intento a seguire la preda, che notava a malapena dove stava andando.
Quando calò la notte, si ritrovò nel cuore di una fitta foresta. Le tracce erano scomparse, e dell’alce non c’era neanche l’ombra. Comprese allora d’essersi smarrito, e che era troppo buio per trovare la strada e uscire dal bosco.

Fortunatamente, scorreva lì nei pressi un ruscello d’acqua fresca e chiara. Poté così dissetarsi. Mangiò un po’ delle provviste di carne secca che aveva nella sacca di pelle. Si arrotolò nel suo mantello di pelliccia, appoggiò la schiena a un albero e cercò di riposare.
Ma non poteva dormire; la foresta era piena di strani rumori: le grida di animali notturni, l’urlare dei gufi, il gemere degli alberi nel vento. Era come se udisse questi suoni per la prima volta.

All’improvviso ci fu un suono del tutto nuovo, di un genere che né lui né alcun altro aveva mai udito prima. Era lugubre e spettrale. Sicché si spaventò e, tremante, s’avvolse stretto nel mantello e prese l’arco per assicurarsi che fosse ben teso.
D’altra parte, il suono era come un canto, malinconico ma suadente, pieno di amore, speranza e desiderio. Era un suono così incantevole che, a sentirlo, il nostro giovanotto finalmente si addormentò.

Si addormentò e sognò.
E in sogno gli apparve il wagnuka, il picchio dalla testa rossa. Era da lui che veniva il canto. Il picchio cantava quel canto così strano che pareva dirgli: «Seguimi! segui me solo, e t’insegnerò a cantarmi!».

Quando il nostro cacciatore si svegliò, il sole era già alto. Su un ramo dell’albero contro il quale era appoggiato, vide un picchio dalla testa rossa.
L’uccello volò via su un altro albero, e poi un altro, ma mai molto lontano, guardando per tutto il tempo indietro verso il giovanotto come per dire: «Su, vieni! Seguimi!».
Poi, ancora una volta udì quel meraviglioso canto, e il suo cuore desiderò ancora più ardentemente di trovare chi lo stesse cantando.

Volando alla volta del suono, guidando il cacciatore, l’uccello svolazzò tra le foglie, ed era facile seguire il suo ciuffo rosso vivo.
Alla fine, si posò su un cedro e cominciò a martellare su un ramo, facendo un rumore simile al rapido battere d’un piccolo tamburo. Subito ci fu una raffica di vento, e di nuovo il cacciatore udì quel meraviglioso suono, dritto sopra di lui. Allora scoprì che il suono veniva dal ramo secco che il picchio stava martellando col becco. Si accorse pure che era il Vento a creare il suono, fischiando attraverso i fori che l’uccello aveva scavato.

«Kola, amico – disse il cacciatore – lasciami portare questo ramo a casa. Tu puoi fartene un altro».
Prese il ramo, un pezzo di legno cavo pieno dei buchi aperti dal picchio, e che era lungo all’incirca come il suo avambraccio. Ritornò a piedi al villaggio senza portare carne. Ritornò a mani vuote. Così almeno parve a quelli della sua tribù.
Egli era tuttavia felice.

Andò alla sua tenda e cercò di far cantare il ramo per lui. Vi soffiò dentro, lo brandì attorno: non uscì nessun suono.
Si rattristò: desiderava tanto udire quel meraviglioso suono nuovo.
Allora si purifica nella capanna del vapore e salì sulla cima d’una collina solitaria.
Là, riposando con la schiena contro una grande roccia, digiunò, rimanendo senza cibo e senz’acqua, per quattro giorni e quattro notti, implorando una visione che gli dicesse come far cantare il ramo.

A metà della quarta notte, wagnuka, l’uccello col ciuffo rosso vivo, apparve dicendo: «Ora, osserva questo!». E nel suo sogno il giovanotto osservò molto attentamente.
Quando si svegliò, rintracciò un cedro. Spezzò un ramo e, lavorando molte ore, lo scavò con un trapano ad arco, proprio come aveva visto fare al picchio in sogno. Tagliuzzò il ramo fino a dargli la forma di un uccello con un lungo collo e un becco aperto. Dipinse la punta della testa dell’uccello con washasha, il sacro colore rosso. Pregò. Affumicò il ramo con incenso bruciando salvia, cedro ed erbe aromatiche.
Poi, soffiando dolcemente nel bocchino, mise le dita sui buchi, come aveva visto fare all’uomo-uccello nella sua visione. Ed ecco, all’istante, ci fu il canto.

Spirituale e meraviglioso oltre ogni dire, il canto l’accompagnò per tutto il sentiero fino al villaggio dove la gente rimase attonita e felice nell’udirlo. Con l’aiuto di Vento e di Picchio, il giovane non era poi tornato a mani vuote come sembrava. Il giovane aveva portato loro il primo flauto.

Nel villaggio viveva un itanchan, un grande capo. Questo itanchan aveva una figlia che era bella, ma anche molto fiera e convinta che non esistesse un giovane bello abbastanza per lei. Molti le avevano fatto la corte, ma lei li aveva tutti respinti.
Ebbene, il cacciatore che aveva fatto il flauto decise che era proprio quella la donna per lui. Pensando a lei, compose una speciale canzone, e una notte, ritto dietro un grande albero, la suonò sul suo siyotanka con la speranza che avesse un incantesimo capace di farla innamorare di lui.

Subito la winchinchala l’udì. Era seduta nella tenda del padre, mangiando gobba e lingua di bisonte, sentendosi bene. Voleva restare là, nella tenda vicino al fuoco, ma i suoi piedi volevano andare fuori. Lei si tratteneva, ma i suoi piedi volevano andare fuori!
La sua testa diceva: «Vacci piano!», ma i piedi dicevano: «Cosa aspettiamo ad andare da lui?».
Vide il giovane ritto al chiaro di luna; udì il flauto. La sua testa insisteva: «Non andare da lui è un poveraccio». I suoi piedi però s’affrettavano a replicare: «Va’, corri!», e di nuovo prevalsero i piedi.

Così si trovarono faccia a faccia.
La testa della ragazza le disse di stare in silenzio, ma i piedi le dissero di parlare e lei parlò [la lingua dei piedi] dicendo: «O mio koshkalaka, mio giovane uomo, io sono interamente tua».
Così si coricarono insieme, il giovane e la winchinchala, sotto una coperta.
Più tardi, lei gli disse: «O mio koshkalaka, mio giovane guerriero, mi piaci. Di’ ai tuoi genitori di inviare un dono a mio padre, il capo.
Non importa quanto piccolo, sarà accettato. Di’ a tuo padre di parlare in nome tuo a mio padre. Fallo presto! Fallo subito!».

E così i due padri furono rapidamente d’accordo sui desideri dei loro figli. La fiera winchinchala divenne la moglie del cacciatore, ed egli stesso divenne un grande capo.
Tutti gli altri giovani avevano visto e udito. Ben presto, anche loro cominciarono a tagliuzzare rami di cedro nella forma di teste d’uccello con lunghi colli e becchi aperti. La meravigliosa musica dell’amore si propagò da tribù a tribù e fece andare i piedi delle giovani dove non avrebbero dovuto.
E questo è il modo in cui il flauto fu portato alla gente, grazie al cedro, al picchio e al giovane che non colpì nessun alce, ma che seppe ascoltare il richiamo fischiato dal Vento, una notte che lui s’era sperduto nella foresta.

https://lartedeipazzi.blog/2018/08/12/s ... lauto/amp/

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Messaggio da Abeja G. » dom dic 09, 2018 3:06 pm

Nella tradizione giapponese il tamburo (taiko) ha un significato che va molto al di là delle sue caratteristiche puramente musicali. La sua voce potente, simile al tuono, è in grado di giungere fin sopra alle nuvole, alla dimora dei kami (divinità); il materiale stesso di cui è costruito, il legno, partecipa della sacralità dell'albero da cui deriva.

In quel tempo, Ama-terasu-opo-mi-kami, vedendo ciò (i misfatti di Susa-no-wo), si spaventò e aprendo la porta della grotta celeste, entrò e vi si rinchiuse. Allora Takama-no-para [il mondo degli dei] fu completamente buio, e la Terra Centrale delle Pianure di Giunco [il Giappone] fu completamente buia. Per questo motivo regnava una notte ininterrotta e i pianti delle miriadi di divinità abbondavano ovunque, come le mosche d'estate; e sorsero calamità di ogni sorta.
[...] Ame-no-uzume-no-mikoto [una piccola dea dal volto pieno di rughe per l’età e le risate, in alcune immagini mentre in altre è ritratta come una giovane e leggiadra fanciulla] legò le sue maniche con una corda fatta della pianta celeste Pi-kage, legò attorno alla sua testa una fascia della pianta celeste Ma-saki, [...] rovesciò un enorme barile di sakè davanti alla porta della grotta celeste e ballò su di esso in maniera selvaggia facendolo risuonare. Quindi fu posseduta dalla divinità, espose il suo petto e abbassò la fascia del suo vestito fino ai suoi genitali. Allora Takama-no-para tremò quando le ottocento miriadi di divinità risero tutte insieme. Allora Ama-terasu-no-mi-kami, pensando che ciò fosse strano, aprì uno spiraglio nella porta della grotta celeste [...]
(Kojiki, 17:1-3,14-17)

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Re: Leggende Mitologiche

Messaggio da Abeja G. » lun dic 10, 2018 4:27 pm

La taranta nasce come una “medicina”: capitava molto spesso infatti, specie durante il raccolto, che i contadini si sentissero male, e si credeva che a causare tale malessere fosse il morso di un ragno molto comune nelle calde terre salentine, specie d’estate. Dolori addominali, deliri, depressione e catatonia erano i sintomi tipici dei “tarantolati”, ovvero di coloro che avevano ricevuto il morso della tarantola. Le vittime cadevano in un vero e proprio stato di trance contro il quale la medicina tradizionale non poteva nulla.

L’unico modo per far “uscire” il male sembrava quello di sottoporre il malato al suono ossessivo del tamburello, a volte anche per intere settimane. I movimenti convulsi e violenti scatenati dal suono dei tamburi liberavano dal veleno del ragno, riportando il malato alla vita: si è parlato, per il carattere profondamente magico di tale fenomeno, addirittura di “esorcismo musicale”.

https://www.fanpage.it/notte-della-tara ... mitologia/

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Re: Leggende Mitologiche

Messaggio da Abeja G. » sab giu 05, 2021 11:43 pm

Shiva, Parvati e la Cannabis

Shiva, Parvati and the hemp



La canapa indiana è considerata un potente afrodisiaco, una proprietà che emerge dalla seguente leggenda nepalese riguardante il dio Shiva e la sua sposa divina Parvati. La motivazione dell’uso della canapa come afrodisiaco “per la pace domestica”, e il fatto che Parvati “trova” e non crea la pianta di canapa, sono entrambi fattori che tradiscono una certa modernità del racconto.

Shiva, il creatore e distruttore del mondo, viveva con la sua compagna Parvati sulla cima del monte Himalaya, il tetto del mondo.

Ma non rimaneva mai in casa, bensì amava vagare sulle montagne, ove si dava ai piaceri conviviali con le ninfe celesti.

Ciò dispiaceva a Parvati. Così ella si mise a cercare un mezzo per legare lo sposo a se e alla casa. Trovò una pianta di canapa, della quale portò con se i resinosi fiori femminili.

Appena Shiva fece ritorno a casa, Parvati gli diede da fumare la canapa. Immediatamente Shiva, colto da grande eccitazione e da infinita concupiscenza, afferrò la sua compagna. Con divina beatitudine essi si unirono. Shiva sperimentò un’estasi santa, che più tardi doveva aprire le porte del paradiso ai suoi adoratori.

Da allora, Shiva rimase con la sua sposa Parvati. E sempre, prima di unirsi, fumavano la canapa. Per questo, la canapa è il miglior afrodisiaco: è stata donata agli esseri umani perché possano vivere insieme felici nella pace domestica.

Da: CHRISTIAN RÄTSCH, 1991, Le piante dell’amore. Gli afrodisiaci nel mito, nella storia e nella pratica quotidiana, Gremese, Roma, pp. 82-84.

https://samorini.it/mitologia/canapa/sh ... -cannabis/

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